Black music, dischi fondamentali: "Ray Charles" (1957)

Nel nuovo secolo l’universo sonoro afroamericano ha continuato produrre talenti cresciuti sui solchi dei grandi capolavori soul e r&b del passato. Scopriamo, in sei tappe, quali album non potete farvi mancare quando parliamo di storia della black music.

Ray Charles
"Ray Charles" (Atlantic, 1957)

Figura cardine, che attraversa l’intera epopea della musica nera e ancora non smette di essere citato, omaggiato, campionato o, più semplicemente, imitato (male), Ray Charles Robinson – l’uomo che si accorciò il nome per non essere scambiato con il leggendario pugile “Sugar Ray”, prevedendo in realtà di superarne di gran lunga la fama – ha l’immenso merito di aver contribuito più di tutti a ridisegnare il linguaggio del r&b, trasformandolo in ciò che sboccerà con il nome di soul music. 
Un’infanzia povera e terribilmente triste, con gli occhi che all’età di cinque anni iniziano a smarrire i colori fino a renderlo totalmente cieco, non gli impedì di diventare straordinariamente abile con il pianoforte frequentando una scuola per non vedenti. Soprattutto, non mortificò quell’ineffabile spirito edonista e randagio che lo avrebbe portato con il tempo a non disdegnare eccessi di varia natura, dalle droghe pesanti alla compagnia di donne di ogni tipo, sempre con in testa però uno spartito musicale a scorrergli ininterrottamente tra le sinapsi. 


Dopo essersi fatto le ossa come sessionman per Lowell Fulson, perfezionando una discreta imitazione del pianismo di Nat King Cole, è con “Ray Charles” che si gettò in pasto ai leoni, sbollentando gospel profano con una bella leccata di burro.
E allora ecco venire fuori certi brani che, fosse ancora esistita la Santa Inquisizione, gli sarebbero costati un rogo o due, visto come trasfigurava il catechismo. Magari rielaborando inni a Dio in inni a, ehm… altro ("I Got a Woman"); recitando preghiere in direzione dei piani bassi piuttosto che di quelli alti (la title track); consegnando capolavori dritti dal tabernacolo, che sarebbero diventati standard nei secoli dei secoli, amen ("Drown in My Own Tears"). 
La sua irrequietezza artistica lo avrebbe visto buttarsi a capofitto anche nel country e nel pop orchestrale, giungendo a occupare stabilmente classifiche senza più distinzione di generi e pubblico.

Carlo Babando

Il testo di questo articolo è tratto dal libro "Blackness", di Carlo Babando, pubblicato da Odoya, ed è qui riprodotto per gentile concessione dell'autore e dell'editore.

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