Pearl Jam, “Gigaton”: la storia di “Seven o' clock"

Il nuovo album dei Pearl Jam, una canzone al giorno: la genesi, i dettagli, il testo

È finalmente arrivato “Gigaton”, il nuovo album dei Pearl Jam. E’ il primo lavoro della band da sei anni e mezzo, ed è il più a fuoco da molto tempo a questa parte: un disco che unsice la sperimentazione al classico suono del gruppo di Seattle, rinfrescato dalla presenza di un nuovo produttore, Josh Evans (qua la nostra intervista) .12 canzoni che vanno dal rock alle ballate, con testi incredibilmente attuali, che parlano di resistenza in un mondo impazzito.

A partire da oggi Rockol vi accompagna ogni giorno con il racconto di ogni canzone dell’album, Partiamo con "Hitch-hikin'"  qua trovate lo speciale di Rockol dedicato a "Gigaton". Qua invece la recensione completa del disco.

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“Seven O’clock” è brano il più lungo dell’album, con 6’14” di durata. Un mid tempo su chitarre acustiche e tastiere, e con la voce in primo piano: nel ritornello che ricorda “Confortably numb” dei Pink Floyd (spesso cantata da Vedder e dalla band in passato). Un brano dalla scrittura collettiva (testo di Vedder, musica di tutta la band) il cui titolo arriva dal primo verso (“Seven o’ clock, got a message from afar”), con un bel finale prima in falsetto poi con Vedder che ripete “Much to be done, much to be done”.
Un altro brano di rabbia e reazione rispetto alla situazione attuale

For this is no time for depression
Or self indulgent hesitance
This fucked-up situation calls for all hands
Hands on deck

e poi ancora, un'altra citazione a Trump, questa volta indiretta dopo quella esplicita di "Quick escape"

Sitting Bull and Crazy Horse come
Forged the north and west
Then there’s Sitting Bullshit as our sitting president
Talking to his mirror, whats he say, whats it say back?
A tragedy of errors, who’ll be last to have a laugh?

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