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Quando li aveva intervistati per Q nel 1996, il giornalista Adrian Deevoy aveva parlato dei Blur come di una band sull'orlo di una crisi di nervi, e in effetti tutti i torti non li aveva: passata la sbornia del Britpop di inizio decennio, Damon Albarn e soci erano alla ricerca di un'identità. Un processo difficile e per alcuni doloroso: Graham Coxon aveva preso una sbandata per l'indie americano di Pavement, Guided By Voices e Beat Happening, ma aveva anche iniziato ad avere qualche problema con la bottiglia. Discograficamente parlando, il risultato fu "Blur" del '97, il disco di "Song 2", giusto per dare un'idea a chi non abbia troppa confidenza con il catalogo del gruppo: un album più grezzo e spigoloso, con ammiccamenti più al lo-fi che al sound rassicurante da alta classifica. Un disco coraggioso, che venne promosso con un tour mondiale di nove mesi, che nel '98 passò - ovviamente - anche dal festival britannico per antonomasia: quello di Glastonbury.
L'anno successivo, nel '99, sarebbe arrivato "13", ancora più sperimentale e lontano dai canoni del britpop, e poi ancora la defezione (temporanea) di Coxon, durante la quale venne pubblicato "Think Tank" (nel 2003), e poi ancora la trionfale reunion del 2008. Eppure la chiave che ha reso i Blur una band unica nel suo genere sta proprio in quella manciata di anni alla fine del millennio scorso: invece di avvolgersi nella rassicurante Union Jack diventando un cliché, Albarn e i suoi hanno saputo guardare avanti senza rinnegare il passato, anche a costo di mettere in discussione la propria raison d'être. Cosa facile a dirsi, ma molto meno a farsi, per una band che una buona metà della propria carriera l'ha passata in cima al mondo...
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