“Decamerock”: la storia di Jimi Hendrix

Un estratto dal nuovo libro di Massimo Cotto, “sulle tracce di vite maledette e affascinanti, centouno storie di fortune e sconfitte, tragedie e amori, rovinose cadute e incredibili resurrezioni, passioni sregolate e altri eccessi”

Il ritratto di Jimi Hendrix dal libro “Decamerock” di Massimo Cotto

Lui ci credeva. Credeva ai segni. Alle carte. Al destino. Alle superstizioni. Aveva un ottavo di sangue cherokee, e quando, da bambino, giocava agli indiani e ai cowboy, lui stava sempre con gli indiani. Tutto era possibile al mondo, l’aveva imparato fin da piccolo, guardando le mani di suo padre, che avevano sei dita. Sei, non cinque. E questo, secondo le credenze popolari, non avrebbe portato buona sorte. In famiglia si parlava spesso di sfortuna, forse perché ce n’era in abbondanza.

Suo padre aveva il terrore del demonio. Era convinto che tutto quello che era mancino venisse dal Diavolo, quello con la maiuscola, che tutto dispone. Per questo aveva sempre cercato di correggere il mancinismo naturale di Jimi. Perché lui, Jimi, suonava la chitarra con la sinistra. E la suonava anche piuttosto bene, anche se non ancora benissimo. Era sempre terrorizzato, prima di salire sul palco. Tremava come una foglia, non aveva il coraggio di uscire da dietro le quinte. Non aveva ancora le corde di Dio in mano, non possedeva ancora la musica. Quando diventerà il più grande chitarrista della storia, ripenserà a quei momenti e dirà che ce l’ha fatta solo grazie alla testardaggine, perché tante volte aveva pensato di mollare. Questo è un insegnamento per i ragazzi: se anche Jimi Hendrix si sentiva inadeguato, vuol dire che nessuno nasce con lo spartito già scritto. Ci devi lavorare giorno dopo giorno.

Jimi Hendrix aveva un rapporto strano con l’onomastica. Era stato registrato all’anagrafe come Johnny Allen Hendrix, ma dopo qualche anno suo padre lo fece nuovamente registrare come James Marshall. Chissà perché. E chissà perché Jimi non voleva essere chiamato “James” e nemmeno “Johnny” e nemmeno “Al”. Lui voleva essere chiamato “Buster”. E di questo si sa il perché. Quando abitavano ancora nei casermoni, ogni sabato era possibile vedere una parte di “Flash Gordon”, con Buster Crabbe. Crabbe era stato campione di nuoto, con infinite medaglie, sedici record mondiali e trentacinque nazionali. La sua carriera di nuotatore gli aveva spalancato le porte del cinema. La Paramount Pictures aveva fatto di lui una stella hollywoodiana, dandogli ruoli importanti in centosettanta film. Fu il settimo Tarzan del grande schermo, ma a Hendrix entusiasmava nella serie televisiva di “Flash Gordon”. Fu così che Jimi disse alla sua famiglia che voleva essere chiamato Buster. E così fu chiamato per anni.

E poi arrivò il successo, devastante come numeri e conseguenze. Jimi rovesciò su un lato l’antico concetto di chitarrista e lo mise a riposo per sempre. Poi introdusse uno stile che nessuno sarebbe mai riuscito a imitare.

Come spesso accade, il vortice inghiotte. Jimi stenta a ritrovarsi. Nel luglio del 1969 va in Marocco per una breve vacanza. Ha bisogno di ritemprarsi, ritrovare le vecchie connessioni con il creato. Commette l’errore di farsi leggere i tarocchi da una maga. La prima carta a uscire è quella della Morte. Hendrix è terrorizzato. Una parte di lui è ancora legata ai vecchi riti, alle superstizioni, alle paure. Cerca di non pensare, si tuffa nella musica. E nel sesso. Agosto è il mese di Brigitte Bardot, che incontra all’aeroporto di Parigi, mentre fa scalo in attesa di imbarcarsi per New York. Bastano pochi minuti per capire che nella vita c’è sempre un volo successivo. B.B. e Jimi si nascondono per due giorni nella Ville Lumière. Agosto è il mese di Woodstock, il festival che consacrò definitivamente Hendrix nell’Olimpo degli dei.

Ma la fine è vicina. Il 18 settembre 1970 esce nuovamente la carta della Morte. A Londra, dove tutto in qualche modo era iniziato. Rimangono la musica, i suoni, le parole, le riflessioni. “La mia meta è diven- tare una cosa sola con la musica. Dedico la mia intera vita a questo. Viene tutto da Dio. Io porto messaggi. Sono un messaggero mandato da Dio. Lasciate perdere il mio nome. Ricordatelo solo come ricordereste una stretta di mano. Dimenticate il mio nome”.

Impossibile dimenticare quel nome. Che sia Johnny Allen. O James Marshall. O Buster. O, semplicemente, Jimi.

 

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Tratto, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Marsilio, dal libro “Decamerock”, sul quale potrete leggere altre 100 storie di vite rock.

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