Nella voce, negli occhi e nelle canzoni di Country Joe (il nomignolo, pare, fu un omaggio a Stalin da parte dei genitori comunisti) il vessillo dei Sixties sventola più alto che mai. “Molte delle cose che oggi diamo per scontate sono conquiste di quel periodo”, ricorda lui. “Libertà sessuale e di pensiero, individualismo, moda e modo di porsi in pubblico. E la musica… prima era tutta acustica, grandi orchestre di violini, trombe e tromboni, disimpegno e nessun contenuto politico e sociale. Gli anni ’60 sono stati un capitolo fondamentale, un punto di svolta nella storia dell’uomo. E ci siamo anche divertiti un mondo: per apprezzarli veramente dovevi aver vissuto prima i ’50! Spirava un senso di ottimismo, l’idea che tutto si potesse fare, un magico senso di comunione e di cameratismo internazionale tra i giovani di tutto il mondo. Come tutte le epoche hanno avuto il loro lato scuro: ma il seme del male dell’età dell’Acquario non era certo paragonabile a quello che si annidava nell’establishment e in Richard Nixon!”. Ma al di là dell’identificazione stretta con un’epoca McDonald (che vive ancora a Berkeley, patria delle prime contestazioni studentesche, e oggi ha 63 anni compiuti) ha uno sguardo attento sul presente: “Oggi forse viviamo un’epoca ancora più eccitante di quella, grazie alla comunicazione globale e alla tecnologia digitale, agli equilibri politici mondiali che cambiano… Lo ricordo sempre alla mia primogenita, che oggi ha trent’anni: la sua è stata la prima generazione cresciuta nella consapevolezza del suo posto nell’universo. Prima che l’uomo andasse sulla Luna a scattare fotografie vivevamo nella più completa ignoranza”. Per raccontare i tempi nuovi, Country Joe e la sua band hanno un pugno di canzoni fresche, “Cakewalk to Baghdad” e “Support the troups”, che tracciano interessanti parallelismi tra passato e presente, Vietnam e Medio Oriente. “Bruce Barthol, che è l’autore della prima, ha voluto scrivere una canzone sulla guerra in Iraq sullo stile di ‘I feel like I’m fixin’ to die rag’ (l’inno di Woodstock, per l’appunto). ‘Support the troups’ invece è un pezzo mio. Io stesso sono stato militare in marina e ho sempre sostenuto i reduci del Vietnam e i veterani di guerra. Una posizione poco popolare, quando quelle stesse persone cominciano a prendere posizione per la pace”. L’interesse per le sorti del pianeta e per i destini di chi soffre e combatte in guerra l’hanno portato negli anni a seguire molteplici percorsi di impegno: dalle cause ambientaliste e animaliste allo studio della figura di Florence Nightingale, madre di tutte le infermiere-coraggio impegnate sui fronti di battaglia. “Tutto è nato nel 1981, quando ad una conferenza di veterani ho sentito parlare una ex infermiera di guerra nel Vietnam, Lynda van Devanter, che aveva scritto un libro intitolato ‘Home before morning’. Approfondendo la materia ho scoperto molte similitudini tra la guerra di Crimea, quella del Vietnam e quella in Iraq. Anche in Crimea gli alleati contro la Russia, inglesi, francesi e turchi, andarono in guerra senza un’adeguata preparazione. Non avevano l’abbigliamento adatto a sopportare i rigori dell’inverno, non avevano medicinali, munizioni e cibo sufficienti. Non comunicavano bene tra di loro a causa delle barriere linguistiche ed erano convinti che tutto si sarebbe risolto in due mesi. Invece i tempi si allungarono a dismisura, da una parte e dall’altra il numero di vittime fu immensamente superiore a quello preventivato e alla fine non ci furono vincitori né vinti. L’unica differenza è che quando cominciammo a inviare le prime truppe in Vietnam nessuno o quasi si mosse per protestare. Oggi la spedizione in Iraq ha spinto milioni di persone a manifestare in piazza: 6 soltanto in Italia, 20 o 30 nel mondo. Mi auguro che i movimenti pacifisti crescano in numero e in influenza: dovessimo restare in Iraq il tempo che siamo rimasti in Vietnam non oso immaginare le conseguenze e il numero delle vittime”. Mr. McDonald è molto meno fiducioso nei sistemi della politica tradizionale: “Nessuno ha votato veramente per Kerry, in America. Chi lo ha fatto ha solo cercato di contrastare Bush. Niente da meravigliarsi, il partito democratico di oggi è composto da milionari che non hanno abbracciato nessuno degli ideali per cui abbiamo lottato negli anni ’60. Non prende posizione sull’Aids, non prende posizione sui matrimoni tra omosessuali, sulle droghe ricreative o sulla Palestina. Non prende posizione su niente”.
Impossibile, di fronte ad un protagonista e testimone di tanti e tali eventi storici, resistere alla tentazione di strappargli qualche flash, frammento di memoria, sensazione d’epoca. Cominciamo il giochino, allora. Il festival di Monterey?: “Fu la prima occasione in cui presi l’STP. Me ne andai a passeggiare sulla spiaggia e vidi i delfini che saltavano fuori dall’acqua. Mi venne in mente una canzone che parlava della comunicazione tra noi e loro, ‘Porpoise mouth’”. Woodstock? “Ero a bordo palco a guardare Jimi Hendrix mentre suonava ‘The star spangled banner’. Un’esperienza fantastica, dal punto di vista musicale”. Il processo ad Abbie Hoffman e Jerry Rubin dello Youth International Party, accusati di cospirazione durante la Convention democratica di Chicago nel 1968? “Uno dei momenti più bui in assoluto, cercarono di farci passare per traditori e nemici dello stato. Una situazione che mi ricorda molto quella che si è verificata recentemente a Guantanamo”. Il grande raduno pacifista di Washington dell’aprile 1971, davanti al Campidoglio?: “Impressionante. Non si era mai vista, negli Stati Uniti, una dimostrazione pacifista di quelle dimensioni”.
Ma allora è falso il luogo comune secondo cui chi ha vissuto davvero gli anni ’60 non se li ricorda… “E’ stato Robin Williams a dirlo. E lui non può ricordarseli, gli anni ’60: faceva ‘Mork e Mindy’… Chi li ha vissuti non può dimenticarli, il ricordo è sigillato nella memoria per le cose belle come per le violenze e le brutture. E’ vero, ci siamo ubriacati e abbiamo preso droghe. Ma io mi ricordo tutto. Oddio, quasi tutto”.