Country Joe: 'L'Iraq è come il Vietnam, lottiamo ancora per gli stessi ideali'

“Perché rimettersi a suonare psichedelico, oggi? Perché il modo di far musica che abbiamo inventato negli anni ‘60 – la strumentazione elettrica, i grandi impianti di amplificazione, l’enfasi drammatica posta sulla performance – ha influenzato tutto quel che è venuto dopo: il punk, il grunge, il thrash, la trance. E poi era arrivato il momento di far risentire la nostra voce pacifista, con quel che sta succedendo nel mondo”. Country Joe McDonald, il vecchio eroe dell’acid rock e della canzone di protesta che dal palco di Woodstock orchestrò un oceanico vaffanculo all’indirizzo dell’establishment (il suo “fuck cheer” è uno dei momenti indelebili del celebre film documentario di Michael Wadleigh), è tornato a calcare le scene: stasera si esibisce alla Salumeria della Musica di Milano nell’ambito di “Peace and love”, concerto-spettacolo ispirato all’omonimo libro di Ezio Guaitamacchi, domani è a Genova e dopo Pasqua a Forlì. In estate, in Europa, lo si potrà riascoltare in versione elettrica, insieme ai compagni di un tempo. Manca all’appello, dei vecchi Fish, il chitarrista e depositario del marchio Barry Melton (“Fa l’avvocato e non aveva tempo di venire in tour. Ma forse ci sono altre ragioni” spiega mr. McDonald, sibillino). Ma il resto della band, David Cohen Bruce Barthol e Chicken Hirsh, è quello di dischi come “Electric music for the mind and body” e “I feel like I’m fixin’ to die”, testi base della psichedelia di Frisco e dintorni. “E’ un tipo di musica che posso suonare solo con loro. Ci siamo rimessi insieme e magicamente è tornato tutto come una volta. Non è molto diverso neppure il contesto, in fondo ci sono ancora le stesse, identiche battaglie culturali da combattere. Gli ideali degli anni ’60, la musica, la liberazione sessuale, le droghe ricreative e lo stile di vita alternativo che iniziò ad affermarsi quarant’anni fa sono osteggiati dai nuovi fondamentalisti di parte musulmana e cristiana. E’ un po’ quello che accadde quando si scoprì che la terra era rotonda e non piatta. Chi aveva campato fino a quel momento disegnando mappe e vendendo oggetti che rappresentavano il mondo alla vecchia maniera cercò di continuare a propinare la stessa porcheria. E così oggi continuano a dirti che non devi fare sesso, che la musica ad alto volume rende pazzi, che la marijuana induce all’omicidio e così via. Gente come George Bush e Bin Laden ci vuole riportare indietro di duecento fottuti anni. Ma è condannata a perdere, alla fine: come è successo col razzismo, col sessismo, col fascismo e con il comunismo vecchia maniera”.

Nella voce, negli occhi e nelle canzoni di Country Joe (il nomignolo, pare, fu un omaggio a Stalin da parte dei genitori comunisti) il vessillo dei Sixties sventola più alto che mai. “Molte delle cose che oggi diamo per scontate sono conquiste di quel periodo”, ricorda lui. “Libertà sessuale e di pensiero, individualismo, moda e modo di porsi in pubblico. E la musica… prima era tutta acustica, grandi orchestre di violini, trombe e tromboni, disimpegno e nessun contenuto politico e sociale. Gli anni ’60 sono stati un capitolo fondamentale, un punto di svolta nella storia dell’uomo. E ci siamo anche divertiti un mondo: per apprezzarli veramente dovevi aver vissuto prima i ’50! Spirava un senso di ottimismo, l’idea che tutto si potesse fare, un magico senso di comunione e di cameratismo internazionale tra i giovani di tutto il mondo. Come tutte le epoche hanno avuto il loro lato scuro: ma il seme del male dell’età dell’Acquario non era certo paragonabile a quello che si annidava nell’establishment e in Richard Nixon!”. Ma al di là dell’identificazione stretta con un’epoca McDonald (che vive ancora a Berkeley, patria delle prime contestazioni studentesche, e oggi ha 63 anni compiuti) ha uno sguardo attento sul presente: “Oggi forse viviamo un’epoca ancora più eccitante di quella, grazie alla comunicazione globale e alla tecnologia digitale, agli equilibri politici mondiali che cambiano… Lo ricordo sempre alla mia primogenita, che oggi ha trent’anni: la sua è stata la prima generazione cresciuta nella consapevolezza del suo posto nell’universo. Prima che l’uomo andasse sulla Luna a scattare fotografie vivevamo nella più completa ignoranza”. Per raccontare i tempi nuovi, Country Joe e la sua band hanno un pugno di canzoni fresche, “Cakewalk to Baghdad” e “Support the troups”, che tracciano interessanti parallelismi tra passato e presente, Vietnam e Medio Oriente. “Bruce Barthol, che è l’autore della prima, ha voluto scrivere una canzone sulla guerra in Iraq sullo stile di ‘I feel like I’m fixin’ to die rag’ (l’inno di Woodstock, per l’appunto). ‘Support the troups’ invece è un pezzo mio. Io stesso sono stato militare in marina e ho sempre sostenuto i reduci del Vietnam e i veterani di guerra. Una posizione poco popolare, quando quelle stesse persone cominciano a prendere posizione per la pace”. L’interesse per le sorti del pianeta e per i destini di chi soffre e combatte in guerra l’hanno portato negli anni a seguire molteplici percorsi di impegno: dalle cause ambientaliste e animaliste allo studio della figura di Florence Nightingale, madre di tutte le infermiere-coraggio impegnate sui fronti di battaglia. “Tutto è nato nel 1981, quando ad una conferenza di veterani ho sentito parlare una ex infermiera di guerra nel Vietnam, Lynda van Devanter, che aveva scritto un libro intitolato ‘Home before morning’. Approfondendo la materia ho scoperto molte similitudini tra la guerra di Crimea, quella del Vietnam e quella in Iraq. Anche in Crimea gli alleati contro la Russia, inglesi, francesi e turchi, andarono in guerra senza un’adeguata preparazione. Non avevano l’abbigliamento adatto a sopportare i rigori dell’inverno, non avevano medicinali, munizioni e cibo sufficienti. Non comunicavano bene tra di loro a causa delle barriere linguistiche ed erano convinti che tutto si sarebbe risolto in due mesi. Invece i tempi si allungarono a dismisura, da una parte e dall’altra il numero di vittime fu immensamente superiore a quello preventivato e alla fine non ci furono vincitori né vinti. L’unica differenza è che quando cominciammo a inviare le prime truppe in Vietnam nessuno o quasi si mosse per protestare. Oggi la spedizione in Iraq ha spinto milioni di persone a manifestare in piazza: 6 soltanto in Italia, 20 o 30 nel mondo. Mi auguro che i movimenti pacifisti crescano in numero e in influenza: dovessimo restare in Iraq il tempo che siamo rimasti in Vietnam non oso immaginare le conseguenze e il numero delle vittime”. Mr. McDonald è molto meno fiducioso nei sistemi della politica tradizionale: “Nessuno ha votato veramente per Kerry, in America. Chi lo ha fatto ha solo cercato di contrastare Bush. Niente da meravigliarsi, il partito democratico di oggi è composto da milionari che non hanno abbracciato nessuno degli ideali per cui abbiamo lottato negli anni ’60. Non prende posizione sull’Aids, non prende posizione sui matrimoni tra omosessuali, sulle droghe ricreative o sulla Palestina. Non prende posizione su niente”.

Impossibile, di fronte ad un protagonista e testimone di tanti e tali eventi storici, resistere alla tentazione di strappargli qualche flash, frammento di memoria, sensazione d’epoca. Cominciamo il giochino, allora. Il festival di Monterey?: “Fu la prima occasione in cui presi l’STP. Me ne andai a passeggiare sulla spiaggia e vidi i delfini che saltavano fuori dall’acqua. Mi venne in mente una canzone che parlava della comunicazione tra noi e loro, ‘Porpoise mouth’”. Woodstock? “Ero a bordo palco a guardare Jimi Hendrix mentre suonava ‘The star spangled banner’. Un’esperienza fantastica, dal punto di vista musicale”. Il processo ad Abbie Hoffman e Jerry Rubin dello Youth International Party, accusati di cospirazione durante la Convention democratica di Chicago nel 1968? “Uno dei momenti più bui in assoluto, cercarono di farci passare per traditori e nemici dello stato. Una situazione che mi ricorda molto quella che si è verificata recentemente a Guantanamo”. Il grande raduno pacifista di Washington dell’aprile 1971, davanti al Campidoglio?: “Impressionante. Non si era mai vista, negli Stati Uniti, una dimostrazione pacifista di quelle dimensioni”.
Ma allora è falso il luogo comune secondo cui chi ha vissuto davvero gli anni ’60 non se li ricorda… “E’ stato Robin Williams a dirlo. E lui non può ricordarseli, gli anni ’60: faceva ‘Mork e Mindy’… Chi li ha vissuti non può dimenticarli, il ricordo è sigillato nella memoria per le cose belle come per le violenze e le brutture. E’ vero, ci siamo ubriacati e abbiamo preso droghe. Ma io mi ricordo tutto. Oddio, quasi tutto”.
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