Roberto Vecchioni, la storia di "Luci a San Siro" (1971). ASCOLTA

“Luci a San Siro” di Roberto Vecchioni (musica di Andrea Lo Vecchio e Renato Pareti, parole di Roberto Vecchioni)
“Sera, stendi le mani sul nostro amore: non mi svegliare più”.
Gigliola Cinquetti canta questo struggente refrain al Festival di Sanremo del 1968, raggiungendo l’ottavo posto nonostante l’accoppiamento con la semisconosciuta Giuliana Valci. Il duo dei compositori del brano è un improbabile calembour: Vecchioni-Lo Vecchio, parole e musica. Quando tre anni dopo Roberto Vecchioni, nato in Brianza da genitori napoletani, laureato in Lettere antiche alla Cattolica di Milano, decide di incidere il primo album, raduna alcune canzoni composte con gli amici Andrea Lo Vecchio e Renato Pareti, più qualche inedito in dichiarato stile francese. Esce così “Parabola”, rigorosamente in monofonia per la Ducale, copertina virata seppia con due gru che sbucano dalla nebbia milanese. Il primo impatto è stupefacente con la traccia “Lui se n’è andato”, una marcetta dolente che apre le “confessioni” del professor Vecchioni. Si parla di un ragazzo scomparso, forse suicida, tra reazioni ipocrite e svogliate degli amici: “E tu Francesco piantala di dire: sarà a New York / Poteva non lasciare solo a me la sua paura / poteva dirmi con dolore ho chiuso questa.”. Qui d’improvviso il ritmo cambia, la canzone si fa melodica e intona una strofa che abbiamo già sentito, tre anni prima a quel Sanremo dalla Cinquetti: “Sera, stendi le mani.”.
Ma le sorprese non sono finite: si passa da “Povero ragazzo”, drammatico tradimento ai danni di un amico (“Sapessi dov’è adesso la tua donna / Qui fra le mie mani / le stelle che le bruciano negli occhi / le braccia strette forte sul mio cuore / per non pensarti, non pensarti più”), a “Improvviso paese”, commovente ricordo gridato “come la pioggia che prendo in faccia per non morire”.
E poi il vecchio vinile ruota sul lato B, la puntina si appoggia e il pianoforte comincia a fremere insieme alla voce rotta di Vecchioni. “Hanno ragione, hanno ragione / mi han detto è vecchio tutto quello che lei fa.”. In un attimo si sprofonda dentro la nebbia di San Siro, gelida ma provvidenziale per giocare a nascondersi (“Ma stai barando, tu stai gridando / così non vale è troppo facile così”), dentro una Seicento, il posto più scomodo e romantico dove fare l’amore. È un buco nella memoria, doloroso e sincero dove nessuna canzone era mai stata prima. E lo stesso autore ci assicura che è proprio sua, autobiografica, nuda, senza alibi (“Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni che più ne scrivi più sei bravo e fai dané”) dedicata all’antico amore Adriana, che tornerà molto spesso nelle future canzoni.
Poi l’urlo finale che sembra sbaragliare quella dolce nebbia dei ricordi: “Milano mia, portami via / fa tanto freddo, schifo e non ne posso più”. Una canzone che emoziona da quasi mezzo secolo e che Roberto propone immancabilmente nei concerti, nelle versioni originali, senza censura: “Parli di sesso, prostituzione”, o addirittura “di coito anale”, anziché “di donne da buon costume”. “Magari anche fra le sue braccia” diventa “Magari urlando fra le sue gambe”. E “più abbassi il capo e più ti dicono di sì / e se hai le mani sporche che importa...” si trasforma in “più lecchi il culo e più ti dicono di sì / e se hai la lingua sporca, che importa / chiudi la bocca, nessuno lo saprà”. Ma sono dettagli: quelle luci a San Siro non si sono più spente.
Estratto da "I migliori anni della nostra musica. Un secolo di cantautori in 200 canzoni" di Federico Pistone, Arcana edizioni. (C) Lit edizioni di Pietro D'Amore s.a.s. Per gentile concessione
Già pubblicate:
“Emozioni” di Lucio Battisti
“Cantico dei drogati” di Fabrizio De André
“Canzone per te” di Sergio Endrigo
“Ti te se’ no” di Enzo Jannacci
“Ritornerai” di Bruno Lauzi
“Mi sono innamorato di te” di Luigi Tenco
“Il cielo in una stanza” di Gino Paoli
