Psicanalizzato da Pacifico: Motta racconta “Vivere o morire” – INTERVISTA

Due anni fa, ai tempi dell’esordio “La fine dei vent’anni”, Motta sembrava affascinato dall’idea di bivio. Il nuovo album del cantautore toscano, ex Criminal Jokers, si intitola “Vivere o morire” e parla dell’importanza di scegliere da che parte stare. “E io voglio stare dalla parte del vivere. Mi sono guardato indietro e ho visto la mia vita come una serie di scelte binarie: esserci o non esserci, restare o andare, vivere o morire. Sono venute fuori canzoni piene di speranza. Partono sì da una malinconia, però poi si trasformano”.

C’è uno struggimento controllato nel secondo album di Motta. Racconta l’instabilità emotiva ed esistenziale non come una condizione permanente, ma come qualcosa che ci si può mettere alle spalle. “Sono arrivato a una stabilità. Gli amici mi prendono in giuro perché sono ossessionato dal mio trolley. Ecco, mi sono reso conto che la mia vita in un trolley non ci sta. Ora voglio posarlo da qualche parte”. L’album è allora un racconto che va costruendosi canzone dopo canzone, cumulando immagini e ricordi personali. “L’unico modo per trovare un gancio emotivo nelle canzoni è metterci dentro la mia vita”.

Due testi su tre di “Vivere o morire” sono stati scritti con Pacifico. “Mi ha fatto da psicanalista”, spiega Motta, “ha avuto un ruolo maieutico”. In altre parole, più che scrivere con lui, l’ha spinto a tirare fuori la verità. “È stata un’idea della Sugar. Sono andato da lui a Parigi, mi ha fatto raccontare la mia vita, mi sono ritrovato a scrivere di cose che non avrei mai tirato fuori senza di lui. Ho visto il mio passato in maniera più lucida e consapevole. E mi sono accorto, ascoltando il disco finito, che si parla di amore. E l’amore per me è un messaggio politico. Si capisce da che parte sto anche quando parlo dei miei genitori o di quando sono innamorato. Ho scelto con cura ogni singola nota. Nel primo album c’era una specie di confusione ordinata che faceva perdere il filo del discorso, ma era la mia vita ad essere così”.

Motta ha prodotto l’album con Taketo Gohara fra Roma e New York. Musicalmente, le canzoni si basano ancora sul concetto di ripetizione – c’è pure in verso che dice: “Di cambiare accordi non me ne frega niente” – ma sono maggiormente raffinate e suonate da un gran numero di strumentisti, compreso il percussionista Mauro Refosco e un quartetto d’archi. Ai cori di “E poi ci pensi un po’” c’è la sua attuale fidanzata, l’attrice Carolina Crescentini, ringraziata nelle note di copertina per avergli fatto “scoprire una nuova luce”. “Il primo album era più confuso, qui c’è più sintesi. È più ordinato. Mi sono accorto che dovevo togliere tracce e parole, anche canzoni se non rispecchiavano il racconto del disco. La ripetizione? I loop sono fondamentali, creano una ridondanza che porta a un mantra e a una spiritualità. Il trucco di questo disco è che non ci sono trucchi”.

In “La fine del vent’anni”, racconta Motta, c’era uno stato di confusione in qualche modo aggressivo che nel nuovo album è sparito. “E la stessa aggressività c’era sul palco. Il concerto all’Alcatraz di Milano di un anno fa mi ha fatto capire che l’importanza della sobrietà che prima, venendo dal punk, non avevo. Di quel concerto ho un brutto ricordo, ma quell’emozione eccessiva mi ha insegnato tanto”. La stessa band di allora, con un percussionista aggiunto, lo accompagnerà del tour che si aprirà con quattro concerti in maggio a Roma, Bologna, Firenze e Milano. “Quando canto le vecchie canzoni riesco ad essere esecutore di me stesso. I pezzi nuovi invece sono ancora una coltellata”.

Più che a nuove canzoni (“Non mi diverto a scrivere, spero che il terzo album arrivi più in là possibile”), ora Motta pensa a come trasformare l’affetto delle persone in qualcosa di diverso e più grande. “Ho fatto 100 concerti in tutta Italia mi sono accorto che le persone non si sentono rappresentate. Forse gli artisti dovrebbero prendere posizioni su cose importanti, dovrebbero mettersi in gioco come abbiamo fatto con il concerto benefico Bella Livorno. Dovremmo essere tutti più responsabili e capire che quello che facciamo è importante per aggregare le persone. È un bellissimo momento per la musica italiana. Chi scrive canzoni ha messo da parte la vergogna e questa cosa ha portato a canzoni bellissime, ma anche a troppe pacche sulla spalla che sono pericolose".

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