“Non sono stati anni di inattività” ha spiegato Conte, che abbiamo incontrato martedì sera, 2 novembre, in un ristorante milanese. “Sono stati riempiti dai molti concerti all’estero e in Italia, e dall’impresa avventurosa di ‘Razmataz’. Questo nuovo disco è nato dal desiderio di ricominciare a fare il mio mestiere di scrittore di musica e di parole. L’ispirazione non arriva a comando, ma se sollecitata può farsi viva; e strada facendo mi sono accorto che la voglia di scrivere non mi mancava, così che in realtà ho scritto parecchi nuovi brani, ben più dei tredici contenuti in ‘Elegia’; anzi, potrei dire di avere già un secondo disco quasi pronto”.
Scortato dal fido Fantini e accompagnato dall’affascinante consorte Egle, Paolo Conte ha parlato con piacere del suo nuovo lavoro, “nel quale si ritrova quel tanto di confessorio, mai esplicito, che può esserci nelle canzoni – canzoni nate in un clima molto sereno, dal piacere di scrivere con semplicità. Mi ritrovo sempre nel mio vecchio habitus mentale dei primi tempi, quando scrivevo per altri: ogni brano può essere diverso dall’altro, ma pretende sempre di essere la facciata A di un disco a 45 giri”.
E del titolo, “Elegia”, Conte spiega che è “un po’ letterario e un po’ musicale: mi pare un titolo nobile, che – dal vocabolario – rimanda al concetto di ‘composizione di stampo sentimentale’, ed è forse un titolo che preferisce non voler dire più che voler dire”.
L’ambiente conviviale non induce all’interrogatorio, così è l’ospite che divaga appena sollecitato dalle curiosità dei presenti: “Vediamo se siete preparati, se sapete quale canzone non è del tutto inedita... Non lo sapete, eh? Ve lo dico io: la musica di ‘Frisco’ era già stata usata per la colonna sonora di un’opera teatrale ispirata a ‘On the road’ di Kerouac messa in scena dalla compagnia Il Magopovero di Asti”; “Non mi sembra di buon gusto approfittare dell’attualità, preferisco raccontare favole, che è l’unica strada seria che può scegliere questo mestiere”; “abbiamo suonato spesso il pianoforte a quattro mani perché elimina la batteria, e dà il piacere di sentire sfruttato tutto il pianoforte a tastiera piena”; “in concerto vorrei un po’ sparigliare le carte, cambiare la scaletta, ma sono vincolato dall’obbligo delle luci, che rende tutto un po’ troppo cameristico e organizzato, ti fa un po’ schiavo – benché non sia mai stato un corridore di palcoscenico, e sia stato sempre attaccato al pianoforte come a una zattera, nei prossimi concerti può darsi che qualche canzone la canti stando in piedi”; “leggo libri gialli, ascolto jazz arcaico e musica classica, fra i nuovi personaggi della scena italiana mi incuriosisce Davide Van De Sfroos”; e, sul finire della cena: “Non mi dispiacerebbe essere ancora in scena a novant’anni, come Charles Trenet”.
Ma il disco, che abbiamo ascoltato una volta prima di incontrare l’artista e che riascolto ora scrivendo, com’è? Da Paolo Conte non ci si può aspettare la rivoluzione, né forse l’evoluzione di una formula espressiva peculiare come la sua; il meglio che ci può dare è la precisazione, la politura stilistica, la sottrazione del superfluo, l’asciugatura. La voce è quella che conosciamo, a volte soffiata ed estenuata, a volte reboante come passata attraverso un megafono da fiera di paese, precisa nelle acciaccature, sempre suggestiva. E le canzoni del disco? C’è il jazz, certo (“Frisco”, col suo elenco di città scomparse paragonate a San Francisco “l’etrusca”); e c’è la Francia (“Molto lontano”, con quella sua fisarmonica così profumata di pastis); e c’è il Sudamerica (“Regno del tango”, col bandoneon che strappa e punteggia e rima con “illusion”); e c’è una nuova puntata, la quarta, della saga contiana più epica (“Nostalgia del Mocambo”, nel cui testo c’è la frase più struggente dell’intero disco: “si vede una coppia in silenzio che beve l’assenzio del tempo ladron”).
C’è il capolavoro? Chissà, è presto per dirlo, al secondo ascolto. Le canzoni di Conte crescono nel tempo, resistendo e irrobustendosi attraverso l’usura degli anni e dei concerti. A me, al momento, piace soprattutto la meno apparentemente “contiana” delle canzoni di questo disco: la conclusiva “La vecchia giacca nuova”, petroliniana assai ma che mi rimanda irresistibilmente alle ancora poco conosciute e ancora molto misconosciute canzoni dei primissimi due dischi di Paolo Conte, entrambi intitolati col suo nome, usciti per la RCA nel 1974 e nel 1975. Intanto vale la pena di non privarsi del piacere di assaggiare questo “Elegia”; un album pieno di belle parole desuete e un poco polverose, così eleganti, dal gusto enigmistico (caligine friabile réclame pietra pomice sofà cretonne petomane manometri decalcomanie azalea...), pieno di belle musiche benissimo suonate da strumentisti di vaglia.
Parole e musiche che insieme fanno un mazzetto di canzoni ancora acerbe alle nostre orecchie, da ascoltare preferibilmente in certe domeniche pomeriggio un po’ umide d’autunno, foglie fradice in giardino e bicchierino di rosolio che lascia un tondo appiccicoso sul ripiano di vetro del tavolino vicino alla poltrona.
(fz)