La rivincita del Mono: perché così il classic rock suona meglio (con un piccolo aiuto da parte degli Stones) (1 / 6)

Innanzitutto perché allora gli artisti “pensavano” in mono, dunque nel trasformare in dischi le loro opere condizionavano l’intero processo di registrazione a quella tecnica e, quindi, gli album precedenti gli anni ’70 mixati in mono possono considerarsi dei veri originali, sia dal punto di vista sonoro che concettuale. E, in secondo luogo, perché al mixaggio in mono era dedicata tutta la loro cura, spesso relegando la realizzazione della versione stereo ad assistenti dei tecnici del suono disponibili in studio alla fine del processo di registrazione.
Un paio di episodi di chiara fama - The Beatles in Mono e The Original Mono Recordings di Dylan – hanno dimostrato che non è infrequente per i fans riscoprire dei classici in versioni realmente differenti e, in generale, percepire per la prima volta una ben maggiore nitidezza sonora e dei mixaggi più incisivi. Ora la vicenda si ripete in una forma ancora più clamorosa con la pubblicazione di The Rolling Stones in Mono, un altro formidabile esempio del ritorno di fiamma del mono che già si propone come cofanetto indispensabile per ogni esegeta della band di Jagger e Richards. Vi si trovano all’interno tutti gli album inglesi e la maggior parte di quelli di emissione americana del gruppo degli anni ’60 (dall’omonimo LP di esordio a “Let it bleed”), arricchiti da un disco-compilation intitolato Stray Cats che raggruppa singoli ed EP che restarono esclusi dagli album.
Ma cosa distingue un mix in mono da uno in stereo?