Cuore di metallo: Paradise Lost

Da quella culla infernale che fu l’Inghilterra, almeno per il metal, negli anni Ottata, scaturisce la creatura sulfurea e gotica dei Paradise Lost. La band è in attività, appunto, dal 1988 e con una straordinaria stabilità nella line-up – che ha visto solo l’avvicendarsi di batteristi, mentre il nucleo formato da Nick Holmes, Greg Mackintosh, Aaron Aedy e Steve Edmondson è rimasto invariato.

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Il nome della band si riferisce – ovviamente – al poema epico dell’inglese John Milton di argomento religioso (racconta l'episodio biblico della caduta dell'uomo: la tentazione di Adamo e Eva a opera di Satana e la loro cacciata dal giardino dell'Eden.) risalente al 1667; e il sound proposto agli esordi ricalca questa ispirazione: i Paradise Lost sono, infatti, fra i pionieri del death doom metal – genere che esalta le atmosfere lente e soffocanti del doom con cantati che alternano growl e melodia, uniti all’uso della doppia cassa per i tempi di batteria.

Caratteristica della band di Halifax, come spesso accade per i pilastri di un genere , è la capacità di evolvere e sviluppare una personalità che trascende i paletti e le regole. Infatti dopo una prima terna di album più intransigenti ed estremi, i Paradise Lost iniziano a ri-plasmare la propria identità, fino a giungere a un gothic metal raffinatissimo, d’impatto e di grande successo commerciale (di cui l’album “Draconian Times” è forse la massima espressione). Un cambiamento che apre la strada a un altro cambiamento… infatti nei seguenti due dischi vediamo il gruppo allontanarsi dal metal per abbracciare la sperimentazione venata di elettronica e il pop wave dark anni Ottanta: una sorta di rivoluzione copernicana stilistica, che per molti fan della prima ora è stata difficile da digerire.

Il nuovo millennio, poi, porta alla proverbiale chiusura del cerchio, con un ritorno a un sound più metallico e vicino all’ispirazione di “Draconian Times”, oltre a un rinnovato successo per acclamazione di critica e fan.

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