Niente archeologia musicale, dunque, anche se stavolta al posto dell’elettronica e dei campionatori ci sono pianoforte, batteria, contrabbasso, il dinamismo di una vera sezione fiati e le voci carezzevoli di Cristina Zavalloni, Bembe Segue, Lucia Minetti e Lisa Bassenge. “Del mio passato, in questo disco, c’è tutto e niente”, riconosce Conte. “C’è la mia passione per il jazz, coltivata per anni in modo assolutamente privato. E se proprio devo trovare una continuità con la mia produzione precedente non penso tanto a ‘Jazz sounds’, un disco che ho completato sei anni fa, quanto ai miei remix più recenti e ai pezzi che ho inciso con Gianluca Petrella sul’EP ‘New standards’. ‘Kind of sunshine’, firmata da tutti e due, è il titolo che fa da ponte con quel disco, l’unico in cui ho conservato un poco di elettronica. E’ cambiato tutto, da quando ho cominciato a scrivere. Mi sono messo a studiare composizione, ma accanto alla visione del musicista conservo quella del dj: in questo, credo, sta la contemporaneità del disco”. O magari il suo guardare avanti, come suggerirebbe il titolo “New directions”. “Ma quella non è una dichiarazione d’intenti musicali. Piuttosto esprime una presa di distanza rispetto a una certa realtà contemporanea. L’approccio del disco, credo che si senta, è molto romantico. E il romanticismo è del tutto assente dalla nostra società di oggi: io non mi sento per nulla in sintonia con il materialismo spinto, con l’arroganza, con il gusto dell’apparire tipici di questi tempi. Il passato a cui ‘New directions’ si riferisce, per me, è ancora molto vicino”. Il momento è propizio, con tutta quella voglia di jazz “leggero”, di musica suonata e di crooner che c’è in giro. “E’ un fatto naturale”, dice Conte. “A tutto c’è un limite. Quando in giro c’è troppa spazzatura è normale che la gente si rimetta a cercare il bello, nella musica: non è detto che tutta questa nuova musica risponda ai requisiti, ma certo ha una radice differente”.
E’ un uomo di buone letture e di buone frequentazioni cinematografiche, Conte. E anche queste affiorano esplicitamente nel disco, a cominciare da quel “The Dharma bums” che gioca scherzosamente con il titolo della novella di Kerouac, rendendo omaggio alla sua scrittura beat a ritmo di jazz. Non solo: “Il titolo ‘Wanin’ moon’ richiama quello di una poesia di Shelley, che come gli altri poeti romantici inglesi è stato un mio punto di riferimento nella scrittura dei testi. E i due pezzi non firmati da me sono tratti da colonne sonore cinematografiche. ‘All gone’ l’ho presa da ‘Il servo’ di Joseph Losey, un film che per le atmosfere, le tematiche e il contesto storico è stata una delle influenze principali del disco: mi piaceva la descrizione di un’epoca al tramonto, in un’Inghilterra che passa dall’età vittoriana a quella moderna”.
In quelle atmosfere Conte si è immerso a capofitto. Tanto, dice, da voler lasciar perdere per un po’ i mille altri progetti, per concentrarsi sullo studio della composizione e sulla pratica dello strumento (la chitarra, che suona sul palco e che nel disco ha usato solo in “Le depart”). “Sicuramente rifarò un disco di bossa nova, quando sarà il momento e avrò il materiale giusto. Ma intanto penso al tour imminente con il nostro ottetto. Abbiamo già suonato a Perugia e a Montreux: è una gioia immensa salire sul palco con questi musicisti”. Non rinuncia invece, nel frattempo, a setacciare cataloghi e negozi di dischi in cerca di suoni vecchi e nuovi. “In questo momento ascolto molto i dischi di Kevin Yost per la i! Records, mi piace il nuovo di Moodymann/Kenny Dixon Jr., un samba house molto elegante. Ed è bellissimo il nuovo dei danesi Povo, un gruppo che trovo molto vicino alle mie cose. E poi c’è il jazz, naturalmente: i miei ultimi acquisti sono stati ‘Soul station’ di Hank Mobley, ‘Consequence’ di Jackie McLean e ‘Clubhouse’ di Dexter Gordon”. Tutti marchiati Blue Note, naturalmente.