Tempi gloriosi, ma anche turbolenti, racconta Linda. Anche a causa del manifestarsi della maledetta malattia. “E’ un problema che mi ha assillato durante la registrazione di tutti e tre i dischi. Avevo bisogno di molto più tempo, rispetto a Richard e agli altri musicisti, per completare le mie parti in studio. Da allora la malattia ha continuato a manifestarsi a intermittenza. Si è tramutata in un incubo, ne ero completamente terrorizzata. Era diventata una turba psicologica, una vera e propria fobia. Ancora oggi non ne conosco le origini: so solo che tutto è iniziato con la mia prima gravidanza. Sono stata da un medico a New York che mi ha detto che il problema non è di carattere fisico: è il mio cervello che manda messaggi sbagliati alle mie corde vocali. A questo punto non me ne preoccupo neanche più. So che il problema c’è, e ci convivo”. Brutti ricordi, allora… “Ma sono passati trent’anni, e le brutte cose si tende a dimenticarle, come i momenti difficili. Ai tempi di ‘Pour down like silver’ avevamo cominciato a vivere in una comune islamica: non era facile, ma era quello che anch’io, allora, desideravo fare. Alla fine, la bontà della musica è più durevole dei ricordi spiacevoli. E ci sono anche quelli belli e affettuosi: rammento Sandy Denny, Nick Drake, Steve Winwood e Bob Marley far capolino in studio a dare un’occhiata a quel che succedeva. Nessuno avrebbe pensato che, trent’anni dopo, uno come Nick avrebbe venduto milioni di dischi… Era anche un periodo divertente. In giro per gli studi c’era solo gente brillante, mica Kylie Minogue. Oh, scusa Kylie…La conosco, non c’è nulla che non vada in lei”.
Quanti talenti, nella vecchia scuderia Island. Tra loro c’era cameratismo o piuttosto competizione? “Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Eravamo giovani, e dunque vogliosi di primeggiare. Ma prevaleva la solidarietà. Sandy era la mia migliore amica. John Martyn e la Incredible String Band erano molto diversi da noi. E Nick… beh, lui era molto chiuso in se stesso e non era facile comunicare. Ma tutti noi lo adoravamo”. La Island di allora sembrava quasi un paradiso per artisti. E’ solo un’impressione? “No, allora le case discografiche potevano permettersi di promuovere il talento, oggi invece devono pensare a far più soldi nel minor tempo possibile. Chris Blackwell, il titolare della Island, era un uomo con molto buon gusto. Lui era l’unico padrone, e la sua etichetta somigliava più a una famiglia che ad un’azienda. In studio, giocavo spesso a biliardo con Marley. Che uomo meraviglioso, sempre con un enorme cannone tra le labbra!”. Anche le personalità e i caratteri erano forti. Non doveva essere facile, stare in mezzo a Joe Boyd, il manager, e Richard Thompson. “Abbiamo lavorato poco con Joe, in studio, perché normalmente non era lui a produrre i dischi. Ma chiunque ci fosse in sala di incisione era sempre la personalità di Richard a prevalere. Ha sempre fatto quel che ha voluto, e questo in fondo vale anche per me”. Thompson era anche l’autore delle canzoni: e vien da chiedersi se Linda si sentisse a suo agio nel cantare testi così poco indulgenti e tenebrosi, caustici e senza speranza. “Le canzoni sono solo dei momenti, non mi facevo condizionare dal significato dei testi. Neppure quando erano su di me, e non particolarmente gentili nei miei confronti…Non è un problema, se la canzone mi piace. E’ tipico degli artisti, non curarsi del fatto che si sta mettendo a nudo la propria anima o si appare in cattiva luce purché il risultato sia soddisfacente. Le prime canzoni di Richard restano, per me, le migliori che abbia mai scritto. Eravamo fortunati, in un certo senso: tra noi c’era un sincronismo assoluto, un’intesa artistica che funzionava alla perfezione. Anche perché eravamo inclini tutti e due al lato buio della vita…Io cantavo soprattutto le ballate, gli lasciavo volentieri i pezzi più veloci e le canzoni che erano scritte da una prospettiva tipicamente maschile: come ‘Shoot out the lights’, che era ispirata all’Unione Sovietica di Breznev”. Che poi si vendessero pochi dischi, sembra non essere mai stato un cruccio eccessivo. “Tutti noi, Richard, Nick, John (Martyn) ed io, avremmo voluto essere più popolari e diventare ricchi. Ma in realtà non facevamo nulla per raggiungere quell’obiettivo: eravamo tutti coscienti che la nostra non era musica pop e che non sarebbe mai finita in classifica. Sono sempre stata snob, per me era più importante avere buone recensioni sui giornali”.
Nick (Drake) e Sandy (Denny), che la ex signora Thompson cita spesso, oggi non ci sono più. A qualcuno, quel periodo, è costato caro…“Per far parte del music business un po’ matto lo devi essere. E anche per lavorare su musiche che tirano fuori il lato più triste, tenebroso, di te stesso, che poi è quello che tutti noi facevamo. Ma è una parte di me con cui mi sento anche oggi completamente a mio agio. Difficile che mi piacciano i motivi allegri. L’unico che mi viene in mente è ‘Isn’t she lovely’, che Stevie Wonder scrisse per celebrare la nascita della sua bambina. Meravigliosa. Ma di solito una canzone bella, per me, è quella che è capace di far piangere qualcuno. A me per esempio succede con ‘I’m blowin’ away’, nella versione di Bonnie Raitt. O con ‘And so it goes’ di Billy Joel”.
Tornare a parlare dei vecchi dischi porta inevitabilmente a ricordare il burrascoso divorzio dall’ex marito, avvenuto nel 1982 nel bel mezzo di un tour americano. Oggi, sembra tutto superato “Sì, abbiamo di nuovo un buon rapporto. E in realtà abbiamo anche poche occasioni di incontrarci, perché io sto a Londra e lui in California. Quando si divorzia, all’inizio c’è sempre acrimonia. Ma ora è passato, e Richard ha pure suonato sul mio ultimo disco, insieme a due dei nostri figli. Mi piace far musica in famiglia. E la mia prole, non la musica che ho fatto in passato, è il mio unico e vero motivo di orgoglio”.