David Byrne: 'L'opera, antenata del pop'

David Byrne è un uomo dalle mille risorse. Uno che gioca con tutto: con la musica, con l'arte, con la tecnologia. Il nuovo disco solista “Grown backwards”, in uscita il 12 marzo, ne è la dimostrazione. “L'ho registrato a partire da alcuni frammenti melodici che registravo come appunti su un registratore a cassette”, racconta a Rockol, che l'ha incontrato oggi. Tira fuori dallo zaino ed esibisce all'intervistatore un vecchio registratore, poi continua: “andando in giro mi veniva l'idea di una melodia e la canticchiavo qui sopra. Poi mi sono reso conto che da lì si poteva tirare fuori un disco. La prima parte del lavoro l'ho fatta a New York, poi mi si sono trasferito in Texas per registrare gli archi , e usato il mio iPod come hard disk portatile. Tutto il mio disco in questo piccolo aggeggio!”. Ecco le contraddizioni del personaggio, che passa tranquillamente dall'analogico al digitale e ritorno senza colpo ferire. O dal pop alla musica classica, come se fossero un unico genere. Nel disco, infatti, sono inseriti due arie tratte da opere classiche, “Au fond du temple du saint”, cantata in duetto con Rufus Wainwright e proveniente da “Il pescatore di perle” di Bizet, e “Un di felice, eterea”, da “La traviata” di Verdi”. Non sono poi un grande intenditore d'opera, Rufus lo è molto più di me, per questo l'ho chiamato”, dice. “Però sono convinto di una cosa: la canzone pop moderna deve molto all'opera, in termini di ruolo sociale e struttura. L'opera, ai tempi di quando veniva scritta, era come le canzoni oggi: veniva cantata per la strada, dalla gente. Compositori come Verdi o Puccini rielaboravano fonti di musica tradizionale, specialmente provenienti dal sud dell'Italia. Anche in termini di struttura la canzone americana, quella per esempio di Cole Porter, deve molto all'opera: la presenza di un 'gancio', una melodia ben definita…”.

Byrne è chiaramente uno a cui non piace che la propria musica si presti a definizioni troppo vincolanti. Così in “Grown backwards” mischia suoni derivati dalla sua carriera (alcuni riferimenti quasi funkeggianti che sembrano arrivare dai Talking Heads) e gli archi dei Tosca Strings, già usati nel disco precedente “Look into the eyeball”. E annuncia che nel prossimo tour – in partenza proprio dall'Italia: prima data a Reggio Emilia il 21 marzo, poi altri sette tappe a seguire; la data di Milano del 22 marzo è già esaurita – rielaborerà anche brani dei Talking Heads secondo questa nuova chiave quasi “classica”. “Il titolo, però”, spiega “non si riferisce a questo processo inverso di lavorazione della musica da cui è nato il disco, ma al fatto che nell'ultimo periodo sono cresciuto parecchio, perché la mia vita è cambiata. Vivo a New York, che è cambiata molto dopo l'11 settembre”. “Grown backwards”, perà non un disco sul dopo-Twin Towers. “E' un disco su come tutto attorno mi ha trasformato… Ho cambiato casa, ufficio, famiglia, casa discografica…”.Byrne è infatti approdato alla Nonesuch, ormai casa di artisti di rango come Randy Newman, che si sono stufati della “vecchia” discografia. “Mi trovo bene con loro perché lavorano fuori dagli schemi, con artisti che sfuggono alle definizioni”. Appunto.

Quanto ai Talking Heads, dice: “Ho lavorato al box 'Once in a lifetime', uscito qualche mese fa, che riuniva tre cd di canzoni del gruppo e un DVD con i videoclip della band. Credo che quest'ultima parte del nostro lavoro fosse molto importante per capire chi fossimo”. Poi il discorso scivola inevitabilmente sul presente: “Oggi non credo che sarebbe più possibile. Non faccio più video perché comunque le reti musicali non me li passerebbero, e finirebbero per essere visti solo a festival o su Internet. Non è facile, per una musica che sfugge alle definizioni come la mia, trovare dei canali. Non è facile far sapere alla gente che il disco è uscito: posso solo fare affidamento alla stampa, ed ai miei concerti”.
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