
Un accordo rivoluzionario, una partnership a tutto campo, un salto in avanti nel modo di intendere i rapporti tra artista e casa discografica: così è stato salutato, dagli interessati e da alcuni osservatori attenti del mercato, il principesco rinnovo contrattuale siglato tra EMI e Robbie Williams, di cui è stata data conferma ufficiale mercoledì scorso, 2 ottobre (vedi news).
Il “big deal”, al di là degli aspetti monetari e delle cifre-record sottolineate dai quotidiani, contiene in sé, in effetti, molti elementi innovativi e interessanti. Per blindare a lungo termine (sei album) l’ex Take That, una delle rarissime pop star dell’ultima (o penultima) generazione che sembri dar garanzie di longevità artistica, la major britannica ha versato il sangue (i “rumours” parlano di un anticipo nell’ordine dei 50 milioni di dollari e di un’operazione del valore complessivo di 125 milioni di dollari: somme obiettivamente da capogiro). Ma in cambio, per la prima volta, potrà avanzare pretese ben oltre la fetta, sempre più smilza, degli introiti legati alle vendite dei dischi: spartendosi con il suo golden boy i fatturati derivanti dai concerti, dal merchandising, dalle edizioni musicali, dai progetti cinematografici e televisivi (il vero business musicale di oggi e soprattutto di domani, insomma: se non interverranno altri sconvolgimenti imprevedibili….).
La EMI, insomma, rischia grosso, ma forse lo fa a ragion veduta. E fa anche una precisa scelta di campo, condivisibile magari in base a strette logiche aziendali, ma che lascia qualche interrogativo in sospeso se si allarga il raggio di osservazione. Le major, e la EMI tra queste, non hanno a disposizione un pozzo senza fondo di denaro da spendere, di questi tempi: la casa britannica ha deciso di puntarne una grossa fetta su Williams. Spregiudicati e esperti come sono, Alain Levy e David Munns (la coppia di vertice della società) hanno probabilmente fiutato l’affare. E hanno pensato a dar lustro alla loro casa discografica, a conservarne la market share, a far contenti gli azionisti.
Ma che succederà, alla EMI e alle sue rivali-colleghe multinazionali, se questo dovesse essere l’andazzo che prevarrà in futuro? Punteranno su un cavallo solo, legandosi mani e piedi a una (o due, o tre) superstar di livello planetario (cosa che Williams, tra l’altro, non è ancora: gli Stati Uniti, il maggiore mercato del mondo, sono per lui ancora un territorio vergine)?. Potrebbe essere una mossa vincente, quella della EMI. E, come dice il presidente inglese della major Tony Wadsworth, “Di Robbie Williams c’è n’è uno solo. Ma intanto che ne sarà nel frattempo delle tanto declamate spese di ricerca e sviluppo, destinate a scovare i nuovi talenti? E quanti altri artisti ne faranno le spese?
Il “big deal”, al di là degli aspetti monetari e delle cifre-record sottolineate dai quotidiani, contiene in sé, in effetti, molti elementi innovativi e interessanti. Per blindare a lungo termine (sei album) l’ex Take That, una delle rarissime pop star dell’ultima (o penultima) generazione che sembri dar garanzie di longevità artistica, la major britannica ha versato il sangue (i “rumours” parlano di un anticipo nell’ordine dei 50 milioni di dollari e di un’operazione del valore complessivo di 125 milioni di dollari: somme obiettivamente da capogiro). Ma in cambio, per la prima volta, potrà avanzare pretese ben oltre la fetta, sempre più smilza, degli introiti legati alle vendite dei dischi: spartendosi con il suo golden boy i fatturati derivanti dai concerti, dal merchandising, dalle edizioni musicali, dai progetti cinematografici e televisivi (il vero business musicale di oggi e soprattutto di domani, insomma: se non interverranno altri sconvolgimenti imprevedibili….).
La EMI, insomma, rischia grosso, ma forse lo fa a ragion veduta. E fa anche una precisa scelta di campo, condivisibile magari in base a strette logiche aziendali, ma che lascia qualche interrogativo in sospeso se si allarga il raggio di osservazione. Le major, e la EMI tra queste, non hanno a disposizione un pozzo senza fondo di denaro da spendere, di questi tempi: la casa britannica ha deciso di puntarne una grossa fetta su Williams. Spregiudicati e esperti come sono, Alain Levy e David Munns (la coppia di vertice della società) hanno probabilmente fiutato l’affare. E hanno pensato a dar lustro alla loro casa discografica, a conservarne la market share, a far contenti gli azionisti.
Ma che succederà, alla EMI e alle sue rivali-colleghe multinazionali, se questo dovesse essere l’andazzo che prevarrà in futuro? Punteranno su un cavallo solo, legandosi mani e piedi a una (o due, o tre) superstar di livello planetario (cosa che Williams, tra l’altro, non è ancora: gli Stati Uniti, il maggiore mercato del mondo, sono per lui ancora un territorio vergine)?. Potrebbe essere una mossa vincente, quella della EMI. E, come dice il presidente inglese della major Tony Wadsworth, “Di Robbie Williams c’è n’è uno solo. Ma intanto che ne sarà nel frattempo delle tanto declamate spese di ricerca e sviluppo, destinate a scovare i nuovi talenti? E quanti altri artisti ne faranno le spese?
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