Dibattito in USA: gli artisti possono fare a meno delle case discografiche?
“Immagino che un giorno non troppo lontano un fan potrà collegarsi al mio sito Internet e procurarsi un CD di dodici canzoni per dodici dollari, senza nemmeno dover più uscire di casa”, ha spiegato Black all’agenzia Associated Press. Se un numero consistente di artisti deciderà di seguire la stessa strada, aggiunge la country star americana, le case discografiche potrebbero diventare una sovrastruttura superflua. “Con l’evolversi della tecnologia e dei canali di distribuzione, gli artisti sono destinati a diventare liberi”.
Ma non tutti, fa osservare la stessa Associated Press, la pensano allo stesso modo: e cita la stella emergente Ashanti accanto a Mariah Carey, che nonostante la fama e la “fanbase” di cui dispone, non se l’è sentita di fare tutto da sola e ha preferito procurarsi un nuovo, remunerativo contratto discografico (con la Island Def Jam, vedi news) dopo il clamoroso “licenziamento” dalla Virgin.
E non è neppure un caso, aggiungiamo noi, che un oculato amministratore di se stesso come David Bowie abbia deciso, dopo aver fondato una propria etichetta, di appoggiarsi comunque alla major Sony per la distribuzione: i tempi per una completa autogestione artistica, se mai arriveranno, forse non sono ancora maturi, se non per quegli artisti che hanno volontariamente accettato di uscire dalla logica dei grandi numeri e della ricerca spasmodica del Top delle classifiche. .
Per gli emeriti sconosciuti (quelli che il gergo discografico definisce “artisti in via di sviluppo”), poi, le cose si fanno ancora più problematiche: “Con il proliferare dei siti Web, rendersi visibili diventerà ancora più difficile e di conseguenza il marketing delle case discografiche sarà ancora più importante” è l’opinione di Danny Goldberg, titolare della Artemis Records che si prepara a pubblicare (in licenza/distribuzione Sony) nuovi album di artisti come Steve Earle, Peter Wolf e Graham Nash. “Ci sarà sempre bisogno delle case discografiche”, sostiene l’esperto manager discografico (che ha lavorato per le major Mercury e Warner Bros.); “sono le banche di investimento del business musicale”. Una visione, quella di Goldberg, comunque diversa da quella di Alain Levy della EMI e di tutti coloro secondo cui le major dovranno preoccuparsi, d’ora in poi, di far crescere i talenti musicali al loro interno. Impresa difficile, in epoche di tumultuose rivendicazioni artistiche, infinite possibilità tecnologiche e obbligo imperativo di ridurre i costi di funzionamento della macchina musicale: forse, banalmente, la verità sul futuro del business musicale non la conosce ancora nessuno.