Ligabue, Campovolo 2.0: il commento di Rockol

Che ci crediate o meno, non c'è troppo da dire su quello che si è rivelato il successo annunciato che tutto lasciava presagire, un evento concepito, studiato e calcolato nei minimi dettagli per suggellare una stagione di grandi numeri che ha riconfermato Ligabue come uno dei pochi artisti, in Italia, capaci di rivolgersi con credibilità ad una platea tanto vasta quanto popolare (e trasversale). C'era autocelebrazione, sul palco - e nel parterre - dell'aeroporto di Reggio Emilia? Sì, ma poco male, perché individuarla come causa di fastidio in questa occasione sarebbe come venire invitati ad un festa di compleanno e lamentarsi col festeggiato di aver voluto attirare tutta l'attenzione su di sé soffiando sulle candeline. Meglio concentrarsi sul versante prettamente musicale, quindi, che ha offerto uno spettacolo monstre di oltre tre ore con ben trentuno brani in scaletta, sapientemente selezionati e piazzati nei punti chiave, con un'apertura di brani in prevalenza recenti, un tuffo nel passato poco prima della metà e una concentrazione di grandi hit prima dei bis, chiusi da una jam session generale che ha richiamato sul palco tutti i collaboratori storici del Liga, dai Clandestino alla Banda passando per il suo gruppo attuale. Dal punto di vista scenografico, nulla da eccepire: il palco - unico, con una sola appendice a T centrale - ha garantito una visione quasi a 180 gradi, costellando il set con visual piuttosto essenziali ma in ogni caso d'impatto, comunque in grado di soddisfare tanto i fan più sfegatati assiepati nel pit (l'area delimitata da transenne che contiene le prime file del fronte palco) quanto gli ammiratori più tiepidi rimasti nelle retrovie. Per quanto riguarda l'audio, i tecnici - stranieri, va osservato - pare abbiano fatto un ottimo lavoro, almeno a giudicare da quanto sentito in nelle adiacenze laterali della ribalta e dell'area stampa: benché già si vociferi di "zone d'ombra" (pare in fondo, a lato, ma che personalmente non siamo riusciti a verificare), i due ordini di delay speaker montati su torri alte una ventina di metri dovrebbero aver fatto il loro lavoro, restituendo al pubblico (parte del quale memore dei problemi di suono che caratterizzarono il primo Campovolo) una resa compatta e definita, con bassi profondi e chitarre ben distribuite ed equalizzate a supportare la voce (sempre molto "fuori", come in gergo si definisce quando tende a sovrastare resto degli strumenti) della star emiliana. Vero è che i Clandestino, la Banda ed il gruppo hanno sound parzialmente diversi, come ha puntualizzato lo stesso Ligabue poche ora prima di salire sul palco, ma - complessivamente - tutto è filato liscio, senza ombre di larsen o clip a sporcare esecuzioni rodate e solide, a tratti più ruspanti - quelle dei Clandestino, come è giusto che sia - altre volte più patinate (quelle del gruppo attuale, sempre molto preciso). Esecuzioni che, ca va sans dire, sono quelle proprie di un megaevento dal quale verranno tratti un film in 3D da lanciare sotto il prossimo Natale e un doppio live da immettere sul mercato poco prima delle festività: tecnicamente impeccabili (pur con qualche sbavatura qua e là, che grazie al cielo c'è stata, come in ogni concerto rock che si rispetti), sciolte e non impacciate grazie al grande mestiere dei protagonisti, con spunti strumentali molto interessanti (quelli di Pagani, ma anche alcuni interventi di Cottafavi e Poggipollini) ma piuttosto schiacciati da un set torrenziale che - se lasciato preda di divagazioni da jam band - avrebbe potuto concludersi non prima della prossima Pasqua.

E' stata fondamentalmente una questione di cifre, questo Campovolo 2.0. Numeriche, che hanno fatto sorridere - per una volta - manager, promoter e discografici, gongolanti nell'enumerare presenze e statistiche impensabili per la discografia di oggi, che fa sempre più fatica a campare, sia coi concerti che coi dischi. Ma soprattutto stilistiche. Ligabue, piaccia o meno, ha dimostrato - stavolta al netto di inconvenienti tecnici, anche se la sua lunga militanza sui palchi degli stadi l'aveva già messo in chiaro - di saper domare, con la chitarra al collo, le grandi folle. Chissà che roba, si potrebbe obbiettare con sufficienza, ma in Italia ci sono sempre riusciti in pochissimi, anche su scale più ridotte. Campovolo 2.0 era anche una rivincita e allo stesso tempo una conferma, quindi, per un artista sempre più insofferente nelle vesti dell'anti-Vasco e sempre più desideroso di conquistare definitivamente un posto in prima fila nella Storia della canzone tricolore: e sotto questo aspetto, possiamo dirlo, la missione è riuscita. Ora, sbollito l'entusiasmo ed asciugato il sudore, conviene pensare a cosa porti, questo bagno di folla. Un film e un disco, si è già detto, che permettano al rocker di Correggio di staccare un po' la spina senza sparire completamente dai radar (e ai suoi discografici di guadagnare qualche euro, che di questi tempi male non fa), per ricaricare le batterie e donare nuova linfa alla sua ispirazione. E - ed è quello che ci auguriamo noi - per provare a pensarsi diverso. Diverso dal Liga che è sceso dal palco qualche ora fa, perché - come ha detto lui stesso, presentando l'inedito "Ora e allora", che verrà inserito nel live in uscita a novembre - se è vero che "ciò che sembra cambiare resta immutato" è altrettanto vero che esistono "cambiamenti" che sono "inevitabili". Se, come lui stesso ha ammesso, sul palco lo vedremo fino a quando avrà bisogno di una badante che gli cambierà il pannolone, ci auguriamo di vedere un Ligabue andato oltre l'1 e il 2.0, oltre il mega evento, magari più scorbutico, probabilmente più imprevedibile e fuori dagli schemi, compatibilmente con quella che è la sua natura. Perché, forse, il Ligabue 3.0 che vedremo dopo la vacanza iniziata stasera di un altro Campovolo non avrà più bisogno...
(dp)

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